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Dopo 4.000 anni, un tuffo indietro con il linguaggio

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Geroglifici, con questo nome si suole intendere la scrittura degli antichi Egiziani. Il termine deriva da Clemente Alessandrino (Strom., V, 4,20) che la designa γράμματα ἱερογλυϕικὰ “lettere sacre incise” e, benché errato (poiché la scrittura non ha niente di ieratico e non è riservata ai monumenti) e inducente spesso in errore i profani, esso continua a vivere per la sua comodità.

La scrittura egiziana consta d’innumerevoli figure che ritraggono l’uomo, le sue azioni, gli animali, i vegetali, nel loro intero e nelle singole parti, ogni cosa del mondo visibile. La serie è illimitata. Oggi si conoscono circa tremila segni, ma soltanto circa seicento ricorrono con frequenza.

Ogni oggetto è rappresentato dalla sua figura, più o meno stilizzata: il sole da un disco, il legno da un ramo di albero e così via. Naturalmente l’occhio e l’orecchio esprimono, oltre all’organo del senso, la funzione, ossia il vedere, il sentire e il non sentire; l’aria e il vento s’indicano mediante una loro azione, la vela rigonfia.

Le figure erano però inadeguate a rendere le complessità del linguaggio; molte cose astratte e parecchie concrete non c’era modo di rappresentarle, ad esempio “padre”, “vivere” e simili.

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